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Il carattere conta e non è “contato”

La parola “carattere” ha a che fare con l’impronta che un soggetto imprime alla materia. può essere "brutto" ma è sempre carattere.
La parola “carattere” ha a che fare con l’impronta che un soggetto imprime alla materia. può essere "brutto" ma è sempre carattere.

Il peso specifico del “brutto carattere”

Studente a Pisa, venni a conoscenza, nel giro degli amici iscritti a Griusprudenza, di un episodio definito “comico”, ma che, fin da subito, mi parve di ben altra consistenza.

Ecco il fatto: una certa studentessa, ad un esame, forse di diritto privato, si scontra con un assistente.

La ragazza è preparata, ancorché tosta, e l’assistente, alla fine, dopo averle dato un interessante 28, esclama: “signorina, lei ha un brutto carattere!”.

La giovane studentessa si volta e replica, secca: “Io non ho un brutto carattere, ho carattere!”.

Con la sua erre moscia e con tutte queste “r” in circolazione, l’effetto sarà certamente stato esilarante, ma quel che mi colpì allora e ancora oggi mi colpisce è l’icastica verità pronunciata con prontezza da questa donna: chi ha “carattere” viene segnato dall’impronta del “brutto carattere”.

Invece no, ha ragione lei: trattasi di “carattere”.

Cosa c’entra questo con le soft skills? Tutto.

Perché oggi si parla con insistenza di “character skills”.

La parola “carattere” ha a che fare con l’impronta che un soggetto imprime alla materia (l’etimo ci rimanda al greco, charàsso e poi al sostantivo character, impronta).

Il “carattere” appare, dunque, “brutto”, ossia, da brutum, sgraziato, pesante, sgradevole, semplicemente perché appartiene a ciò che rende l’io un protagonista: la legge del moto che guida l’io dà voce alla sua energia.

E questo non piace, perché il mondo si aspetta, poco o tanto, servitù volontaria, adesione, accettazione dei codici comportamentali e sociali.

Niente di nuovo sotto il sole, eppure questo “dettaglio” è sempre motivo di fatica, sudore e aspra dialettica.

carattere

“Character skills”

Come sempre, le cosiddette “soft skills” vengono inserite nelle categorie performative e comportamentali del “bravo ragazzo” che lavora bene, ci sa fare, è flessibile, si muove bene nel mondo e, quindi, è il profilo perfetto del neocapitalismo postmoderno. 

Invece, anche in inglese “character” reca con sé la stessa semantica dura e tosta della parola “carattere”, quindi, se hai abilità che si collegano al carattere (character skills), allora devi ambire a lasciare un segno, a dare impronta alle cose.

Con questo, siamo arrivati al geniale e umanamente affascinante pensiero di Josemaria Escrivà che, nel suo bestseller pedagogico-spirituale “Cammino”, inizia tutto con un capitolo – “Carattere” – a cui segue questo aforisma: “Che la tua vita non sia una vita sterile. Sii utile. Lascia traccia”.

Il carattere conta.

E non è così “contato”, rappresentato, accolto per ciò che è, secondo le sue origini: l’acciaio contenuto nei vasi di coccio che tutti noi siamo.

Un paio di esempi di “brutto carattere”, che servono molto a lasciare traccia (con qualche nemico in più, come sempre):

1 – Ma quando la finiamo con questa sciatta, petulante e fatua retorica sul “tutti in vacanza”, “torniamo alla normalità”, “tutti al mare dopo il Covid”?

Un tempo, quando il carattere contava, eccome, cose così sarebbero state definite imbarazzanti, infantili e perfino indecenti.

Oggi vediamo attempati signori ed altrettanto attempate signore, che, di fronte ad un microfono, esprimono sentimenti di metafisico ardore, sognando California, come si diceva un secolo fa.

La retorica della “vacanza”, che perde il succo della questione: gli uomini si definiscono a seconda di come usano il loro tempo libero.

Appunto, carattere. Se lo dici – io lo faccio e ora lo scrivo – sono bollato come un “caratteraccio”, e sia, sono tutte medaglie.

2 – In questa fase della mia vita, faccio il professore di storia e filosofia in un liceo paritario.

Ai miei studenti ho detto, con chiarezza, che si lavora fino all’ultimo secondo dell’ultima ora. Perché se non si impara cosa sia il lavoro vero, ossia la fatica e lo sforzo orientato ad uno scopo, quando si è a scuola, si perde un pezzo e dopo è tutto più difficile, soprattutto in un’età accelerata come la nostra.

Ma è una dura battaglia, perché, a scuola, l’ultimo giorno o addirittura l’ultima settimana è tutto finito: e quando sarai a lavoro, che fai? Stacchi sette giorni prima di partire per il mare (se ci potrai andare)?

E chi ti stacca l’assegna (se ci sarà), che cosa penserà e soprattutto cosa farà?

Ecco, il lavoro, che non comporta scorciatoie, segno di un carattere vero, di uno che vuole arrivare. Una ricercatrice americana, Angela Lee Duckworth parla di “grit”, grinta.

Siamo sempre lì: il carattere. Il “brutto” carattere. Virile, si sarebbe detto una volta. Harvey C. Mansfield ha scritto, quindici anni fa, un gran libro: Manliness. Virilità. Tradotto: Carattere. “Brutto” carattere. Queste sono le “skills” che ci servono: “Character skills”.

Con vero “Character”.