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La radicalità del bene

La radicalità appartiene alla vita. La radicalità è vivere assecondando la “radice che porta”.
La radicalità appartiene alla vita. La radicalità è vivere assecondando la “radice che porta”.

La radicalità è vivere assecondando

la “radice che porta”

La radicalità appartiene alla vita. Per almeno due ragioni.

In primo luogo, noi apparteniamo ad una “radice che porta”.

San Paolo definisce la realtà oggettiva alla quale apparteniamo: “Non sei tu che porti la radice, ma è la radice che porta te” (Rm 11,18).

Chi non è “portato” da questa radice è uno sradicato. La radice ha molte espressioni: la famiglia, la storia e la cultura di un popolo, la fede come riconoscimento della ragionevolezza dell’incontro col Mistero che ti accompagna e spinge, così, la tua vita al compimento.

radicalità

In secondo luogo, quella radice ci apre ad ogni altra radice.

L’umano ha in sé il tratto originario dell’universalità: “Homo sum, humani nihil a me alienum puto” (2° sec. a.C.). “Sono un uomo e niente di ciò che è umano ritengo a me estraneo”.

Non si tratta della curiosità onnivora, sarebbe troppo poco e, per certi aspetti, perfino pericoloso.

Non tutto ciò che bramo di conoscere, per mille ragioni, è per ciò stesso bene che io conosca: la Rete è anche una sentina di vizi. In essa circola molta spazzatura. Essere curiosi di arraffare tutto, senza discernere alcunché, è la migliore via per un perfetto autosabotaggio e la peggiore per un equilibrato e profondo sviluppo umano.

Lo sradicamento: un testo di Simone Weil

Lo sradicamento non ha un carattere neutro. Al contrario, esso incide pesantemente sul vivere quotidiano.

Forma oggettiva di alienazione, lo sradicamento conduce al male.

Lo spiega magistralmente Simone Weil:

Lo sradicamento è di gran lunga la più pericolosa malattia delle società umane, perché si moltiplica da sola. Le persone realmente sradicate non hanno che due comportamenti possibili: o cadere in un’inerzia dell’anima quasi pari alla morte (come la maggior parte degli schiavi dell’Impero romano), o gettarsi in un’attività che tende sempre a sradicare, spesso con metodi violentissimi, coloro che non lo sono ancora o che lo sono solo in parte.

La prima radice, 1949, tr. it. Mondadori, Milano, 1996, p. 52

Simone Weil scrive queste righe di rara potenza analitica non profetizzando scenari futuri, ma tematizzando il suo presente. E siamo nel 1949.

Oggi, nel 2021, quel processo di sradicamento è diventato la cifra del vivere quotidiano. Non solo. Vi è un sistematico lavoro di sradicamento da parte dei molteplici sistemi di comando della società – la Rete, il nuovo collettivismo finanziario, le militanze sovversive sovente segnate da un motivo progressista, ma non progressivo – della civiltà umana, delle tradizioni dei popoli e del senso religioso, che nutre l’io come soggetto cosciente di sé.

Radicalità: benvenuti nel deserto del reale

Senza radici, anche la ragione si impoverisce.

Perché noi siamo esseri storici continuamente alla ricerca delle ragioni della nostra vita.

Le ragioni richiamano oggettivamente alle radici: io sono perché sono nato in una certa famiglia, in una certa Nazione, in una certa cultura, in una certa fede.

La razionalità umana matura domanda le ragioni di questo originario radicamento e svolge il suo lavoro facendo i conti con la tradizione umana, spirituale e culturale nella quale si nasce.

radicalità

Se questo lavoro non viene fatto, anziché emergere il bene oggettivo della vita, in tutte le sue implicazioni relazionali e, perché no?, dialettiche, emergono soltanto le immagini del pensiero dominante, sradicante e nichilista. Che incidono non solo sull’assetto personale, psicologico, emozionale e affettivo, ma anche sul piano effettivo ed effettuale della storia e, di conseguenza, della vita.

Della vita come chance di sviluppo autocosciente della persona umana.

Perché non vi è radicalità più grande ed efficace di questo bene, ri-guadagnato, ri-compreso e ri-conquistato.

Questo è il realismo progettuale del bene. Altrimenti, benvenuti nel deserto del reale.

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